Depre

durer-melancolia-big La depressione è una malattia strana, nessuno vuole mai ammettere di averla, tanti la sottovalutano confondendola con stanchezza, stress, o semplicemente insoddisfazione per la propria vita. In pochi, di certo, si prendono la briga di misurarla, di quantificarla, incanalare qualche modus comportamentale.

Si può essere malati e non dirlo nemmeno alla propria madre.

Capita che non ci si vuol credere nemmeno quando diagnosticata da qualche luminare.

Io mi sono ritrovata a vivere un periodo della vita assurdo, in cui le notti erano scandite dall’eco dei passi di un insonne accanto. Le liti di un matrimonio in crisi erano amplificate da recriminazioni assurde. Ricordo che ero una pessima madre perché non mi ero ricordata il numero di scarpe di mio figlio. Ero un pezzo di ghiaccio, una donna egoista che voleva soltanto vivere la sua vita e non pensava a quella degli altri. Guardavo mio marito assopirsi al tavolo mentre nostro figlio dipingeva con i colori a dita. Lo osservavo dimagrire, avere improvvisi sbalzi d’umore, attaccare le persone per motivi futili. Mi domandavo in silenzio fino a che punto la soluzione fosse la sopportazione, e oltre quale limite impalpabile avrei avuto diritto ad un po’ di serenità anch’io, moglie di un depresso, già figlia di un depresso.

Soltanto dopo una separazione, qualcuno con il camice bianco ha provato ad intervenire. Rimasi a lungo convinta di essere la causa scatenante del crollo. Da una parte, credevo che nessuno si sarebbe mai ammalato se io non avessi rivendicato, con quella che chiamarono "la mia crisi dei trent’anni", un mio spazio di vita, sogno, desiderio. A volte, pensavo che "depressione" forse un termine abusato per obbligarmi ufficialmente a non sfasciare una famiglia.

Le parole che ricordo di più sono quelle che pronunciò il dottore alla prima seduta di analisi. E’ difficile vivere con una persona depressa, disse. Finalmente una nuova dimensione si stava focalizzando. Allora non ero io, non era lui, era quel mostro che stava cambiando il significato di tutte le azioni, di tutte le parole, di tutti i ricordi.

Una lunga cura, tanta pazienza, e tante rinunce, infinita pazienza, e dopo anni sembrava tutto risolto. Invece, no, ora il disagio si ripropone, magari in maniera diversa, la stronza ci frega cambiando le regole, l’unico atteggiamento comune è la ritrosia nel riconoscere che è tornata, nascosta dietro l’insonnia, l’insoddisfazione lavorativa, il nervosismo.

Eppure, quando non viene a toccare corde sensibili, quando non ci tocca nella sfera personale, l’argomento depressione diventa addirittura trendy. Va di moda parlarne, pure Sharon Stone ha interpretato la depressa, e in un’intervista ha definito la nostra società incapace di sentire il dolore fino in fondo, tacciando di codardia coloro che si rifugiano nell’antidepressivo perché vivere "sotto sedativi" è più facile.

Non sono d’accordo con le dichiarazioni della signora Stone, che nella foga del metodo Stanislavski si proclama fautrice dell’elaborare fino in fondo la sofferenza per poter stare meglio.

Chi lo dice? Chi ha toccato il fondo una volta ha il terrore di tornare di nuovo in quel vortice.

Ben vengano i medici, quelli capaci, e non coloro che prescrivono la Fluoxetina per dimagrire (di chi è poi la colpa, se la signora Stone ci definisce "privi di sentimenti nella società del Prozac"? Di chi prescrive con troppa facilità, persino ai bambini, o di chi concede fiducia e si lascia curare?) , ma coloro che aiutano a comprendere che un disagio deve essere riconosciuto e nominato.

Vivere bene, esattamente come decidere di vivere male o di toccare il fondo, è un diritto che abbiamo, ma se scegliamo la prima, non è codardia, non è perché non ci sentiamo più parte di un universo, ma perché questo universo ci tocca così profondamente che ci fa male e non riusciamo più a resistere, anche se continuiamo ad amarlo troppo per decidere di abbandonarlo.

Forse la signora Stone può permettersi di commentare sulla scia della costruzione del suo personaggio, che la vede capace di recitare un Desiderata anziché qualsiasi altra sciocchezza durante una trasmissione nazional-popolare, però il suo elevato q.i., questa volta, le ha fatto depressionedimenticare che spesso non si riesce a ragionare con certe sventure. Viene solo, semplicemente, voglia di rimuoverle, prendendole a pugni, cancellarle per sempre dalla propria esperienza di vita, e pregare perché non si ripresentino mai più.

Ci ho pensato su settimane, prima di riuscire a scrivere come la depressione ha toccato me e chi amo. All’inizio non volevo mostrare una porzione di vita così intima e dolorosa, poi ho letto l’intervista che segue, e ho sentito il bisogno di dare la mia ininfluente opinione.

28.02.2007

.Noi, privi di sentimenti nella società del Prozac

Magnifica Stone, capace di trasformare il più banale degli incontri con i giornalisti in un momento di scambio umano profondo. La presentazione di When a Man Falls in a Forest diretto dal ventenne Ryan Eslinger, in gara ieri al FilmFest, ha offerto alla diva, che ne è produttrice oltre che interprete, l’occasione per parlare di depressione, diffusissima malattia della nostra epoca trattata spesso come una macchia da nascondere. Sullo schermo l’attrice è Karen, vestita come capita, capelli in disordine, sguardo nel vuoto tranne quando cerca disperatamente un’emozione rubando nei negozi d’abbigliamento. Dal vivo Sharon è la leggenda di sempre, impeccabile nel tailleur pantaloni nero con camicetta leopardata, toccante quando parla della sofferenza di tanti, a un punto dalle lacrime quando spiega che contro quel male non esistono vaccini.

Come ha costruito il suo ruolo?
"Per me è stata un’esperienza liberatoria, nient’affatto deprimente. Quando faccio un film cerco di entrare in sintonia con il personaggio e stavolta ho trovato molte emozioni che erano già dentro di me. Viviamo in una società dominata dal prozac, in cui si tende a reprimere i sentimenti invece che a esprimerli. Non si parla di certe cose perché si ritiene che faccia male, tutto è preordinato, si può soffrire quando c’è una morte, oppure quando finisce una storia d’amore, e invece succede che la gente stia male in mille altre, diverse occasioni. Il film ci dice questo. Secondo me tirar fuori la sofferenza è salutare, certe volte sentire il dolore fino in fondo fa stare meglio, mille volte meglio di come ci vorrebbero imporre le regole di una comunità abituata a vivere sotto sedativi".

Da dove nasce il disagio del suo personaggio?
"E’ diffuso fra le donne e fra gli uomini. In genere succede intorno alla metà della vita, nel momento in cui ci si sente sparire dallo sguardo degli altri, ed è allora che cominciamo a smettere di prenderci cura di noi stessi. Può succedere a chiunque, e non ha niente a che vedere con l’aspetto fisico".

Come ha lavorato con Timothy Hutton che nel film è Bill, marito di Karen, anche lui incapace di comunicare con chi lo circonda?
"Io e Timothy abbiamo passato ore e ore a discutere di questo argomento, tutti hanno vissuto problemi simili, guardo i volti delle persone sedute in questa sala e penso che possiate capire quello che voglio dire. Trovo sia giusto avere il coraggio di portare questa verità sul grande schermo".

Che cosa ha imparato dal film?
"Quando ci sentiamo distrutti, depressi, e con la sensazione di aver perso il senso di noi stessi, significa che non sentiamo più di far parte di un universo. Il viaggio per tornare a galla è lungo e difficile, la cosa importante non è pensare perché ci siamo ridotti così o chi ci ha spinto in questa direzione, quello che conta è rimettersi in piedi".

C’è stato un momento in cui le è pesata l’eredità di Basic Instinct?
Credo che a ogni attore capiti di rimanere legato a un personaggio, in ogni caso il successo di Basic Instinct mi ha permesso di produrre film che mi interessano e dedicarmi alle cause che mi stanno a cuore".

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4 commenti su “Depre

  1. Ricordo bene questo brano, Agnès. Costituì il punto di partenza per raccontare i nostri vissuti dentro la malattia – anche se la mia era diversa dalla tua. Lo percepii come uno scambio “forte”, e confesso che mi ha lasciato un segno.

    Un abbraccio.

    P.

  2. Pim, mi ricordo bene la nostra corrispondenza, purtroppo impari, perchè non ho saputo ricambiarti come avresti meritato…

    GUizzo: il compiacimento è spesso di chi non è realmente colpito dalla depressione…

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